Nell’introduzione del libro “I Poveri sono la Chiesa”, padre Joseph Wresinski racconta la sua propria infanzia.
Ragazzetto nel cerchio infernale della miseria
Risalendo il più indietro possibile nella mia infanzia, mi ricordo di una lunga sala di ospedale, e di mia madre che sgrida la religiosa che ci sorvegliava. Perché, ragazzetto rachitico quale ero, mi avevano ricoverato in ospedale per raddrizzarmi le gambe. Quel giorno, dissi a mia madre che le Suore mi avevano tolto il pacchetto portatomi la domenica precedente. Mia madre, che aveva dovuto fare una faticaccia per mettere assieme quelle poche leccornie, si arrabbiò. Seduta stante, mi strappò dalle mani delle religiose e mi riportò a casa. Poi, sono rimasto con le gambe arcuate, e per tutta la mia giovinezza, ho dovuto sopportare di essere messo in ridicolo e le prese in giro che quella deformazione mi attirava, l’imbarazzo anche di zoppicare leggermente, soprattutto durante la mia adolescenza. Così, il primissimo contatto con gli altri, di cui conservo il ricordo, è quello di un’ingiustizia e di un pregiudizio che dovevano segnare il mio corpo per la vita. È forse per questo che mi sono divenuti intollerabili quei nasi che colano, quelle gambe storte, quei giovani corpi già graffiati che mi circondano oggi nelle città di urgenza, nei tuguri, negli slum. Mia madre che gridava dietro alla suora: non mi aveva sorpreso. Avevo l’abitudine alle grida. A casa, papà gridava tutto il tempo. Picchiava mio fratello maggiore, e mia madre se ne disperava, perché colpiva sempre la testa. Offendeva anche mamma e noi vivevamo senza posa nella paura. È stato solo più tardi, in età adulta, condividendo la vita di altri uomini come lui, di altre famiglie come la nostra, che ho compreso che mio padre era un uomo umiliato. Soffriva di aver fallito la sua vita: portava in sé la vergogna di non potere dare sicurezza e felicità ai suoi. Il male della miseria è questo. Un uomo non può vivere così umiliato senza reagire. E l’uomo povero, oggi come ieri, reagisce sempre in modo violento. Eppure, per il ragazzetto che ero, questo equivaleva ad introdurmi nel cerchio infernale della violenza. La violenza era la maniera di rispondere all’ostacolo, alle difficoltà di ogni sorta e di ogni giorno. E senza che ne prendessi coscienza, essa diveniva per me, proprio come per mio padre, la maniera di lavarmi dalle umiliazioni senza numero che ci faceva subire la nostra estrema povertà. Quel che mi sorprende sempre, malgrado gli anni trascorsi, è che i miei genitori parlavano solo di denaro. Loro che non ne avevano, discutevano quasi senza tregua a causa sua. Quando qualche soldo entrava in casa, si bisticciavano sul modo di spenderlo. Più tardi, quando mamma sarebbe rimasta sola, ci avrebbe parlato sempre di denaro. E quando avrebbe parlato delle persone che avremmo avuto l’occasione di frequentare, sarebbe stato sempre per dire che erano ricche. Dei sacerdoti della parrocchia, avrebbe detto «sono ricchi». Persino la piccola droghiera del quartiere sarebbe stata una ricca ai suoi occhi. Non che mamma fosse gelosa. Quando però gli esseri hanno fame e sono nel bisogno, conta solo quel che può colmare la mancanza. È sempre così, e nelle zone grigie che circondano le nostre città, gli interessi, le dispute, gli scambi si riconducono sempre a questioni di denaro.
Io fui coinvolto in quella battaglia per il cibo, fin dalla più tenera età. Avevo quattro anni ed ero io a condurre la capra al pascolo vicino. La capra che nutriva noi, la mia sorellina appena nata e noi altri bambini. Conducendola, passavo davanti al grande portone del convento del Buon Pastore, dove talora una religiosa mi rivolgeva la parola. Un giorno mi domandò se volessi servire la messa tutte le mattine. Quel giorno, fui assunto per la prima volta. Perché per me si trattava proprio di un’assunzione. Rispondendo alla messa, avevo diritto ogni mattina ad una grande ciotola di caffè e latte, con pane, marmellata, e, i giorni di festa, burro. In più, mi si davano due franchi a settimana. Sono stati quei due franchi a farmi decidere. È così che ho iniziato a farmi carico della famiglia, prima di avere cinque anni. Ogni mattina, per undici anni, mamma mi chiamava per la messa delle sette. C’era bisogno di almeno dieci minuti per correre fino alla cappella, dietro alle grandi mura del convento. L’inverno avevo freddo, e avevo paura del buio. Che tirasse vento o che piovesse, stretto in me stesso, pieno di sonno, ma anche – talora – gridando per la rabbia, costeggiavo la grande via Saint-Jacques, scendevo per via Brault, deserta e ostile, verso i prati, e andavo a servire la messa dalle Suore affinché fossero dati a mamma quaranta soldi. Non credo di essere mai mancato a quell’appuntamento mattutino e mi sembra ancora che tutta la mia infanzia si sia costruita attorno ad esso. Era necessario che mamma avesse proprio fame per noi, per accettare di buttarmi così, ragazzetto, nella strada tutti i giorni. Era necessario che io avessi coscienza del suo sgomento, per accettare questa servitù senza inasprirmi il cuore, né ingiuriare Dio. Ben presto, d’altronde, dovetti rifare la stessa strada, andata e ritorno, a mezzogiorno. Poiché eravamo i più poveri del quartiere, niente di straordinario che all’uscita dalla scuola, io mi precipitassi di nuovo al convento, questa volta per raccogliere in delle gamelle o in dei barattoli da conserva un pasto fatto di quel che mangiavano le religiose. Piselli sgranati, lenticchie, patate, qualche volta dei pezzetti di carne: ecco quel che mi davano le Suore Madeleine , senza dimenticare l’enorme pezzo di pane che costituiva l’essenziale dei nostri pasti familiari. Tutti i giorni della mia giovinezza così furono guidati dalla vita delle religiose del Buon Pastore, dalla loro preghiera e dal loro cibo, perché, da noi, non si avesse fame. Ci penso talvolta osservando oggi i bambini che si arrampicano sulle discariche o che seguono il carretto del padre, sulla strada per vuotare qualche cantina o soffitta. Rovistano nei rifiuti, recuperano i metalli; io, servivo la messa, aspettavo il nostro cibo alla porta del convento. Oggi come allora, il bambino povero non ha infanzia, le responsabilità gli arrivano da quando inizia a tenersi sulle proprie gambe. Eppure, forse, come ai bambini poveri di oggi, mi capitava di giocare e di ridere. Forse mi creavo da solo i miei angoletti, i miei nascondigli, i miei giri inattesi, in quel vecchio quartiere di Angers dove con i compagni immaginavo dei labirinti. C’era però quel giro del convento che bisognava fare tutti i giorni, strada della vergogna della mia infanzia, che ha eclissato nella mia memoria quel che poteva esserci stato di consolante. Strade di vergogna, ce ne erano d’altronde altre, sempre legate al bisogno assillante di cibo. Mi vedo, ragazzetto, riportare alla drogheria la bottiglia di olio di noci che avevo fatto riempire per cinquanta centesimi. Se non era piena rasa fino al tappo, mamma mi rimandava indietro a far aggiungere qualche goccia: lotta perpetua e umiliante delle persone povere per mangiare in base a quanto hanno fame. Più tardi, bisognava riportare alla macelleria i pezzi di carne di cavallo troppo duri. Perché a sette anni, avevo trovato un altro impiego: facevo la spesa a Maria Luisa, la macellaia, che in cambio mi dava due franchi di carne di cavallo quasi tutti i giorni. Mamma esigeva che quella carne fosse fresca e tenera. Non esitava a rimandarmi indietro, se c’era bisogno, per reclamare, prova alla mano, la qualità migliore per la mensa familiare. In compenso per la vergogna, eravamo forti e io facevo pagare inconsciamente a forza di pugni la servitù schiacciante di dover nutrire la mia famiglia. Mi ricordo, a sei anni, di aver pestato un piccolo avversario a pugni, nella siepe. Quando mia madre venne a incontrare la religiosa della scuola materna, per sapere se potevo entrare alla scuola elementare, «certamente, disse la suora, mandatelo là, qui picchia tutti». Fin dalla prima infanzia, si legavano così mancanza di denaro, vergogna e violenza.
Non mi ricordo di essere tornato da scuola e di avere trovato mamma contenta. Abbandonata, ella non si consolava di portare da sola il peso di quattro bambini. Poi c’erano le notizie di mio padre, e soprattutto il denaro che egli doveva inviare, e che non arrivavano. C’era il gas da pagare, il carbone per l’inverno, la stufa da cambiare… Faceva quasi sempre freddo da noi. La vecchia fucina che abitavamo era piena di correnti d’aria. L’aria s’infiltrava da sotto le porte, attraverso i tramezzi. Uno di questi tramezzi era fatto di cassette coperte di carta da imballaggio. Quando la carta si strappava, l’aria ci sferzava. Faceva freddo anche perché tutti gli appartamenti sopra al nostro erano collegati dalla stessa conduttura del camino. Questa conduttura era spesso ostruita, e quando accendevamo il fuoco, Teresa, la figlia del sarto, scendeva per offendere mia madre, perché il fumo si infiltrava da lei. Per non avere storie, mia madre riprendeva allora dalla cucina i pezzi di carbone che noi avevamo cercato nelle discariche della centrale del gas. Quei pezzi di carbone che avevamo fatto tanta fatica a smistare, e che, per la loro povertà, sembravano accentuare, piuttosto che combattere, il freddo che regnava in casa. Come spiegare la passività di mia madre, che ritrovo oggi in tante mamme povere che incontro nei luoghi di miseria? Il suo timore di mettersi in conflitto con i vicini, forse proveniva dalla fatica, ma ancora di più dalla paura. Mamma si sapeva straniera e non ha mai cessato di temere che si potesse rinviarla nella sua Spagna, che la polizia venisse a prenderci per Dio sa quale ragione. Proprio come le mamme delle città di urgenza temono sempre che si venga a fare loro qualche male. Quanto a Teresa, la figlia del sarto, che veniva ad offenderla, io ero ancora piccolo il giorno in cui ho preso il tizzone e l’ho brandito davanti a lei, gridando. Non so che cosa le dissi nella mia collera di bambino, ma da quel momento il nostro povero fuoco ha potuto continuare a covare in quella vecchia stufa il cui focolare era crepato e le cui fessure noi tappavano senza posa con dell’argilla rimediata nei prati vicini. Mia madre si lagnava spesso con gli altri di tutto quel che la divorava, di me, delle preoccupazioni che le davo, del mio ritardo a scuola, del fatto che bagnavo il letto. Ed ecco un altro peso ancora di vergogna sulle mie spalle, perché tutto il quartiere lo sapeva. I poveri non nascondono le loro piaghe. Non hanno di riserva la forza di dissimulare le difficoltà di una esistenza che li spossa. Eppure, è grazie a mia madre che io fui presentato alla licenza elementare. Eravamo poco numerosi, nella scuola libera, a non pagare la nostra istruzione e noi eravamo gli ultimi della classe. Così, per gli esami alla fine degli studi, il direttore non volle assumersi il rischio di presentarmi. Non aveva presentato mio fratello maggiore e mia madre non se ne era urtata. Ciononostante, quando fu il mio turno, non vi si rassegnò così facilmente. Sapeva che non ero scemo, sapeva che avevo troppe responsabilità sulle spalle, troppe sofferenze anche e che percepivo troppo profondamente le ingiustizie. Per noi che ricevevamo la carità, ma mai quel che c’era dovuto, le ingiustizie erano la sorte quotidiana. Mia madre non ha voluto che mi fosse aggiunta un’ingiustizia di più. Fu lei a farmi iscrivere e a presentarmi alla licenza elementare. Soltanto oggi, conosco le riserve di indignazione e di coraggio che erano necessarie a mia madre per difendere così i suoi figli. Mi ha difeso ancora, spalle al muro, ostinatamente, quando le signore patronesse della parrocchia concepirono l’idea di farmi sistemare presso gli Orfanelli d’Auteuil . Progetto apparentemente ragionevole e quanto umiliante per dei bambini nati nella povertà come per la loro madre, quello di volerli far crescere in margine agli altri. In uno di quei sussulti di dignità che le conoscevo bene, mia madre rifiutò. Preferì rinunciare alla benevolenza delle opere parrocchiali. Noi eravamo già a margine degli altri. Troppo poveri, noi eravamo i “messi da parte” del quartiere popolare, legati all’insieme mediante l’elemosina, non mediante l’amicizia. Non eravamo i soli. Mi ricordo della madre ubriaca e del suo figlio naturale. Rientrando la sera, egli trovava la sua mamma stesa in cucina, la trascinava fino al suo letto e la metteva a dormire. Talora veniva da noi e mamma lo metteva a sedere alla nostra tavola, per condividere pane e zuppa. C’era anche la strega. Non voleva che i cani si fermassero sotto la sua finestra. Noi, i bambini, ci servivamo del suo muro come orinatoio e lei inveiva contro di noi. Le volevamo certamente bene, è per questo che la infastidivamo. Non avremmo infastidito il macellaio Rétif, né il falegname Cesbron. Loro erano i grandi del quartiere, non erano del nostro mondo. Un giorno, la strega fu trovata morta di fame nel suo tugurio. Per quindici giorni, nessuno si era preoccupato di lei. Quella sera, mia madre pianse, perché sarebbe potuto succedere a noi. «Chi dunque si sarebbe preoccupato di noi, diceva, io sarei morta come lei». È da lei che ho imparato a battermi, non più per vendetta dell’umiliazione ma per liberare un popolo di esclusi? Un giorno, uno dei ragazzi più grandi della scuola – si chiamava Siché – si infuriò contro un ragazzetto più debole di lui. Lo strinse ai piedi del muro dei w.c. e lo colpì con pugni e calci. Che cosa è successo in me? Mi sono gettato su di lui, l’ho colpito a mia volta con calci e pugni. Gli ho graffiato il viso, fino a che il maestro è venuto a tirarmi via di là a forza. Perché lo avevo fatto? Quel ragazzetto magrolino non era niente per me, che cosa avevo da difenderlo? Eppure è lui che è rimasto nella mia memoria e non la punizione in cui sono incorso. Fui mandato via dalla scuola; ma di tutto quel che seguì quella zuffa, mi ricordo appena. Quel che resta nella mia memoria come una svolta, è quel bambino che si faceva picchiare da un Siché tanto più forte di lui. Quello fu, mi sembra, il punto di partenza di una battaglia in cui forse sarei stato un perdente, ma che, testardo, avrei continuato per tutta la mia vita.
Diventare combattenti per gli esclusi non è eppure così semplice, perché non ci si fa militanti per degli individui sparsi: una madre ubriaca, una strega, un ragazzetto magrolino, per questo, per quello. È stato necessario che io li rincontrassi in un popolo, è stato necessario che io mi scoprissi come facente parte di questo popolo, che io mi ritrovassi da adulto in quei ragazzetti delle città immondezzaio intorno alle nostre città, in quei giovani senza lavoro e che piangono di rabbia. Essi perpetuano la miseria della mia infanzia e mi dicono la perennità di un popolo cencioso. È in nostro potere il mettere in scacco questa perennità. La miseria non esisterà più, domani, se accettiamo di aiutare questi giovani a prendere coscienza del loro popolo, a trasformare la loro violenza in lotta lucida, ad armarsi di amore, di speranza e di sapere, per condurre a termine la lotta contro l’ignoranza, contro la fame, contro l’elemosina e contro l’esclusione. Questo non sarà semplicemente affare di governo, sarà affare di uomini che accettino di camminare con gli esclusi, di legare la propria vita alla loro, talora di lasciare tutto per condividere la loro sorte.
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